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Venerdì 13 marzo la presentazione di “1860. La caduta di Partenope. Vita e morte di un garibaldino napoletano”

Appuntamento con Annibale Mansillo al Castello Caetani

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Con Annibale Mansillo nel Castello Caetani a Fondi venerdì 13 marzo 2020 alle ore 18,30.
Nel libro riferimenti anche a Fondi e al territorio che la circonda, a Gaeta, a Giulia Gonzaga, al ‘brigante’ Giuseppe Conte, al suo rivale Giuseppe Amante.

L'evento è l'occasione per riproporre il romanzo storico scritto dal professore Antonio Di Fazio nel 2016 che mette in luce gli accadimenti avvenuti nel Risorgimento italiano. “1860. La caduta di Partenope. Vita e morte di un garibaldino napoletano” è il titolo del libro per le edizioni Aracne.

La presentazione si terrà venerdì 13 marzo 2020 alle ore 18,30 nella sala del Castello Caetani di Fondi ed è organizzata dall’Associazione Pro Loco Fondi e patrocinata dal Comune di Fondi, media partner Radio Show Italia 103,5.
Oltre alla presenza dell'autore del libro, interverrà anche Annibale Mansillo, presidente Associazione ex alunni Liceo Classico "Vitruvio Pollione" Formia. L’incontro sarà moderato dal giornalista e presidente della Pro Loco Fondi Gaetano Orticelli e intercalato da video e foto descrittive.
L'iniziativa è aperta alla libera partecipazione del pubblico.

Così scrive Annibale Mansillo nella sua critica al  romanzo sulla rivista storica ‘Annali del Lazio meridionale’: L'Unità d’Italia vista attraverso gli occhi di un garibaldino disamorato, messo a confronto, lungo tutto il racconto, con le contraddizioni e le mortificazioni con cui il nuovo governo amministra le popolazioni dell’Italia meridionale.
Egli, al termine di un lento percorso di riflessione, che Di Fazio ci fa rivivere puntualmente e con ricchezza di particolari, passo dopo passo, decide - in un’espiazione che ha il senso di una scelta romantica ed il valore di un’immolazione - di andare nel campo avverso, quello di chi combatte per una causa persa, quella lealista borbonica, sconfitta dal peso della propria debolezza e dalla storia stessa ma, prima ancora, dagli intrighi delle diplomazie europee con l’avallo della massoneria.
L’autore non fa mistero dei suoi orientamenti e, sin dalla prefazione, qualifica come “storia di un riscatto” la parabola di Pasquale Salazar, erede del ramo cadetto di una famiglia di nobili origini, allevato nel culto degli ideali mazziniani che lo portano a seguire Garibaldi, e ad interagire più volte con lui, come più volte viene riferito nel libro, per poi avere il coraggio di abbandonare un sistema politico ed amministrativo, rapidamente affermatosi, nel quale avrebbe potuto, a buona ragione, inserirsi in una posizione di rilievo.
Le riflessioni di Salazar sembrano quelle dell’autore stesso che intende, maieuticamente, far emergere, dalla bocca del protagonista, i torti che il popolo meridionale, prima che i notabili locali, stanno subendo.
Sono le ingiustizie che, nei decenni a seguire, ne hanno decretato la regressione da popolo identitario, fiero custode della sua napoletanità, delle tradizioni e strenuo difensore dei propri valori, di cui, a torto o ragione, la religione cattolica e la monarchia borbonica, sono punti di riferimento inderogabili, a plebaglia, presto considerati dispregiativamente “affricani”, a massa informe di individui, ai quali non rimarrà, dopo la breve stagione della rivolta, antiunitaria ed antistorica, del brigantaggio, la strada dell’emigrazione, sino ad allora nota solo alle popolazioni settentrionali, come l’unica via per fuggire dalla disperazione della povertà e della fame.
Di Fazio non ricorre alla fantastoria di ciò che sarebbe potuto essere se gli eventi avessero avuto un esito diverso, né si potrà trovare nel libro una sola frase contraria alla necessità di perseguire, presto o tardi, l’ideale unitario, ma ne contesta i protagonisti e le modalità. Del processo storico da sempre conosciuto come Risorgimento, egli, nell’ideale rappresentazione in una foto in bianco e nero dell’impresa dei mille, si sofferma ad analizzare non le luci ma le ombre; e sono quelle ombre che, più indaghiamo, più ci rivelano qualcosa di quel che si è fatto in nome del nostro benessere e della nostra libertà, che abbiamo pagato, a caro prezzo, a prezzo proprio del benessere e della libertà del popolo meridionale.
Come considerare la leva obbligatoria con sessantamila chiamati alle armi, mentre sotto i Borboni si ricorreva al sorteggio ed i Siciliani erano del tutto esentati per antico privilegio?
Come giustificare le nuove imposizioni fiscali sui beni di largo consumo, la svendita dei beni ecclesiastici e demaniali (su cui gravavano gli usi civici di pascolo, legnatico, erbatico a favore delle comunità locali) e la formazione di nuovo latifondo privato, la riduzione della produzione nelle poche ma fiorenti industrie del Sud a favore del sistema capitalistico sabaudo?
Né fu da meno la censura del nuovo governo che, a Napoli, favorì la nascita della stampa filo unitaria ma chiuse tutte, o quasi tutte, le altre redazioni; fra le altre, quella della rivista “Poliorama pittoresco”, citata nel libro, nata nel 1836 come “opera periodica diretta a spandere in tutte le classi della società utili conoscenze di ogni genere e a rendere gradevoli e proficue le letture in famiglia”, sulla quale più volte aveva scritto il nostro Pasquale Mattej.
Questo libro è, quindi, intenso ma anche coraggioso. Innanzitutto per la scelta del genere letterario, quello del “romanzo storico”, di grande diffusione durante la stagione letteraria ottocentesca ma oramai desueto, se si eccettuano le rievocazioni dell’impero romano in Robert Harris e Valerio Massimo Manfredi, di vago sapore commerciale.
Di Fazio, invece, utilizza questa tecnica narrativa, che fonde la realtà dei fatti con personaggi e storie di fantasia, in maniera del tutto distante sia da quei romanzi intrisi di ideali risorgimentali, sia dal romanzo storico ottocentesco di maggior successo, come I “Promessi sposi”, che, al valore patriottico, aggiungono le esigenze educative del Manzoni.
In “1860. La caduta di Partenope”, riconosciamo un romanzo storico che vuole distaccarsi dalle “verità ufficiali” a lungo coltivate ed imposte dallo stato unitario, molto più vicino al verismo di quanto non si creda.
Arbasino elogiava “Il gattopardo” come il “manifesto ideologico e poetico più giusto e più utile” per “la cultura neoconservatrice”. Qui, invece, abbiamo una capitale del regno, appena caduto, molto più verace e popolare, che nelle descrizioni del Di Fazio assomiglia a quella immortalata ne “Il ventre di Napoli”, con la quale si coniuga perfettamente perché entrambi, per usare le parole dell’autore, rappresentano il modo in cui la storia è “vissuta dalle genti del Sud”.
Del resto, il protagonista assiste al profondo cambiamento della città e la percepisce, nel suo disordine, come non più sua, ma soprattutto non più capitale di un regno.
È proprio durante quel “disordine strano e scomposto”, moltiplicato durante la festa di Piedigrotta, che Salazar avverte la strana sensazione di non essere più padrone dei suoi sentimenti e percepisce che quel nuovo stato di cose non asseconda affatto gli ideali di giustizia per cui ha sposato la causa garibaldina. La prosa, efficace e coinvolgente, invita il lettore ad immedesimarsi in questo continuo travaglio psicologico.
L’altro motivo per cui ritengo questo libro coraggioso è rappresentato dalla “scelta di inserire intere pagine di autori contemporanei e testimoni”, come specificato nell’introduzione, mettendo a confronto diari e testimonianze, dell’una e dell’altra parte, che, per quanto lucide, non possono essere considerate scevre dall’esigenza, anche inconscia, di magnificare le gesta dei vincitori e rivendicare meriti, o di denunziare torti e speranze tradite o, infine, ricostruire verginità compromesse. L’effetto è quello di consentire al lettore di seguire il filo logico degli eventi e, contemporaneamente, di immedesimarsi in essi.
Addentrandoci nella lettura non mancano, poi, le sorprese. Un insolito elemento che emerge dalla lettura del libro è la notizia, pressoché inedita, della partecipazione di 17 garibaldini napoletani veraci, come il protagonista. Non sono numeri tali da modificare la composizione percentuale dei Mille, che vedono una forte presenza di volontari lombardi ed una, veramente irrisoria, di Piemontesi, ma hanno un significato perché preludono a quell’esercito di quarantamila volontari meridionali che seguirono Garibaldi sino al Volturno e che, per effetto di un decreto sabaudo dell’11 novembre 1860, furono liquidati senza troppe cerimonie.
Troppo diretto il confronto, quasi speculare, tra il protagonista, di fantasia, Pasquale Salazar ed il brigante Carmine Crocco, entrambi garibaldini delusi, transitati nel campo avverso e separati solo nella scelta finale di combattere, l’uno, tra le truppe regolari borboniche e, l’altro, alla macchia, tra le montagne di casa.
Analogie storiche si colgono anche nella partecipazione della criminalità organizzata all’affermazione del nuovo governo, tra la camorra, più volte richiamata, nel 1860 e la mafia all’arrivo degli Alleati in Sicilia nel 1943. È una presenza ingombrante che incombe su ogni manifestazione del potere e richiede il suo tornaconto; non è domanda oziosa chiedersi come possa reggersi il nuovo ordine se a sostenerlo sono la criminalità e i tanti voltagabbana.
Apprezzabile l’uso dell’escamotage degli incontri del protagonista con storici, come Giacinto de’ Sivo, e altri personaggi pubblici suoi interlocutori, come “punti di non ritorno” che segnano le svolte nella trama che diventano definitive.
Infine l’autore non rinuncia ad inserire anche riferimenti alla sua Fondi e al territorio che la circonda, a Giulia Gonzaga, al ‘brigante’ Giuseppe Conte, al suo rivale Giuseppe Amante; ma quel che più incuriosisce è la presenza di Aldo De Santis, compagno d’armi di Salazar, “originario dell’alta Terra di Lavoro”, che racchiude in sé elementi caratteriali di giovialità e di comunicativa che sembra di riconoscere.
Un commilitone, un amico sincero che, però, non condivide la scelta di Pasquale Salazar che il giorno di carnevale, sugli spalti di Gaeta, viene ucciso mentre indossa la maschera di Pulcinella, in una commistione tra farsa e tragedia, com’è, da sempre, il destino del popolo napoletano.

Antonio Di Fazio. Preside nei Licei a riposo dopo aver a lungo insegnato Italiano, Storia e Latino, vive a Fondi (LT).  Ha svolto attività di studio e ricerca di politica scolastica e di didattica del latino e della storia, collaborando a riviste quali ‘Scuola e Città’ e ‘Nuova Secondaria’, e operando ai corsi di innovazione della didattica del Latino presso l’IRRSAE dell’Umbria. In questo ambito ha anche pubblicato il saggio 'Tacito e noi' (2006) e 'In interiore homine' (2008), antologia di traduzioni latine.
Impegnato anche sul fronte della storia, specie locale, ha pubblicato fra l’altro libri quali 'L’Inchiesta Jacini nel circondario di Gaeta' (1991), 'Contadini e Borghesi a Fondi' (2000), 'Giulia Gonzaga e il movimento di riforma' (2003), 'Gli Indiani e l’America. La tenace resistenza al capitalismo americano' (2009), 'Dovuto a Bordiga' (2015), il romanzo storico '1860. La caduta di Partenope' (ed. Aracne, 2016) e diversi saggi sul Risorgimento e sul brigantaggio nel sud pontino. Dal 2001 dirige la rivista storica ‘Annali del Lazio meridionale’.

 

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